Contorno psicologico dell'allenatore




Lo sport è un passatempo, un’attività ricreativa, un veicolo socializzante. Lo sport è pratica e scopo del raggiungimento di un traguardo, un punto di arrivo. Soffermiamoci semplicemente a queste minuscole e approssimate definizioni.
Sono un allenatore, per più di venti anni ho vestito la maglia da giocatore, lo sport, il calcio a 5 in particolare mi ha impartito tante lezioni di vita ma soprattutto, in me ha sviluppato determinati stili di vita. Vorrei soffermarmi su determinate figure che hanno colto l’attenzione dello sguardo, giocatori che, portandosi dietro un definito carattere, hanno trasfigurato apparentemente la propria attività comportamentale. Nello sport così come nella vita esistono atleti con un alto spirito trascinante, atleti dal carattere vincente pur non avendo mai vinto e poi ci sono per mia identificazione, gli adrenalinici. Un giocatore deve giocare sempre per vincere, lo deve fare in un contesto di squadra, per una squadra, per sé stesso e per raggiungere un obiettivo societario, di gruppo. Un allenatore non gioca a perdere, questo concetto sfugge spesso e volentieri per autogiustificazione all’atleta stesso. Prima di divenire allenatore si è stati allenati, è un passaggio di testimone che avviene in più occasioni nello sport. Si sviluppa un praticare con esempi vissuti sulla propria pelle, modificando determinati aspetti e sviluppandone altri. Per concretezza ho sempre definito l’allenatore un perdente. Si perde pur vincendo la partita perfetta in assoluto. Il mister è un uomo solo che giudica decine di atleti, decine di atleti giudicano un uomo solo. Si lavora così per un’intera settimana arrivando al fatidico minuto in cui per ragioni regolamentari bisogna effettuare determinate scelte, i convocati per la gara. Per ragioni numeriche un numero di atleti restano fuori e inconsciamente per questi soggetti, il mister ha di già, pur vincendo la futura gara, commesso degli errori. Effettuando la gara si aggiungono all’elenco altri atleti che per ragioni legati alla questione tattica non prendono parte al match. Si vince la partita e coloro che l’hanno disputata attivamente si prendono i meriti. L’allenatore ha perso pur vincendo. Dopo tanti anni mi sono reso conto di una realtà fondamentale. Solo da pochi si ricevano i giusti ringraziamenti e solo pochi si accorgono realmente dei propri errori. L’allenatore è una figura da sfruttare per giustificare i propri errori, additare il proprio fallimento, il non accettare il proprio limite atletico, il non voler ammettere che forse era doveroso sprecare qualche goccia di sudore in più nell’attività piuttosto che nel sviluppare concetti soggettivi falsati. Arrivato a questo punto, dove risiede la base concettuale di queste mie considerazioni? Dopo poco più di vent’anni da giocatore, sono diventato allenatore per allenare ma la mia vittoria più grande è stata quella che, dopo due decenni ho capito i miei allenatori e i miei errori da giocatore. Si potrebbe scrivere all’infinito ed avere per visione propria (da giocatore stesso) sempre e pur sempre torto. Penso che bisogna trasportare anche in Italia, un modello in voga in alcune parte del mondo. Ci sono colleghi che non danno spiegazioni di determinate decisioni, scelte. Hanno sviluppato un modello soggettivo e di breve periodo dove, fanno vivere a determinati atleti la settimana dell’allenatore e i rispettivi intrecci, dove tantissimo tempo viene assorbito dai continui auto aggiornamenti, rapporti che vanno mantenuti e stress che va autoregolato di volta in volta.
Un allenatore si giudica dopo averne provato altri, una bilancia non si bilancia con un solo peso.  

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